Lo statunitense Robert Wilson è uno dei maggiori artisti contemporanei e nel suo lavoro ha fatto della luce il materiale espressivo più importante, è considerato ancora oggi un grande innovatore, in grado di forzare i limiti del teatro.
Wilson, di origine texana, è principalmente un regista e un drammaturgo ma nel corso della sua articolata carriera è stato anche coreografo, pittore, scultore, videoartista e designer di suono e luci.
La sua ricerca si inserisce a pieno titolo nel solco della grande riforma della scena iniziata da Appia e Craig e portata avanti nel corso del ‘900 da geni visionari come Wilson, Svoboda, Nikolais, solo per citarne alcuni, una riforma resa possibile dalla nascita delle moderne apparecchiature luminose e dalla considerazione della luce come un linguaggio scenico capace di una sua autonomia espressiva.
Fin dalla sua prima messinscena alcuni elementi divennero subito la nota distintiva di Wilson: la ripetizione di alcuni elementi sia uditivi che visivi, i cambiamenti molto graduali di musica e scena, quasi in una sorta di grande slow motion teatrale, la cura maniacale per i dettagli ed i motivi ricorrenti. Parliamo di Einstein on the Beach che andò in scena nel 1976 in Francia e fu da lui progettata e diretta. L’opera venne eseguita come un lungo spartito musicale di circa cinque ore sulle musiche composte da Philip Glass.
Il teatro di Wilson è un’apoteosi di luci e costumi, colori e geometrie, abissi di buio e sagome di volti, da cui non si può non rimanere catturati, come in un’estasi capace di porre lo spettatore in una dimensione di sospensione ed incredulità: ci si chiede infatti se si stia assistendo ad una messinscena o ad una situazione metafisica in cui la bellezza del quadro scenico è così perfetta da renderlo quasi finto, immobile, pittura e non più teatro.
Nella scena teatrale di Wilson la luce è un potente strumento costruttivo che svolge una funzione strutturante, necessaria alla realizzazione dell’immagine scenica e non solo, mezzo fondamentale per la costruzione dell’identità spaziale della messinscena, del tempo e del dramma.
L’illuminazione scenica diviene un potente mezzo in grado di materializzare l’idea di un teatro visionario, in cui Wilson usa la luce allo stesso modo in cui un pittore usa il colore per dipingere sulla tela.
Il tempo e la forza di gravità spariscono o, meglio, sono asserviti al potere di una messinscena in cui sembrano non essere determinanti, anzi, grazie ad un utilizzo meticoloso della luce possono essere addirittura piegati al volere del regista che decide, come un demiurgo, di rallentare ed alleggerire la dimensione fisica degli attori, decidendo quali parti del corpo rendere visibili e quali occultare.
Non a caso il perfezionismo di Wilson nella costruzione dei puntamenti luminosi è a dir poco maniacale, può durare diverse settimane nella realizzazione di uno spettacolo e consiste nella realizzazione di veri e propri quadri-immagine ottenuti attraverso estese campiture cromatiche, in cui l’illuminazione di tipo pittorico-architettonico serve non solo a far vedere ma anche come oggetto di visione, in un equilibrio studiato alla perfezione.
La straordinaria nota distintiva di Wilson rispetto ad altri sperimentatori della scena è che per lui la luce è uno strumento attraverso il quale controllare gli elementi scenici in modo indipendente, separandoli completamente ed ignorando la visione totale dello spazio scenico che si frantuma in tanti dettagli anziché apparire nella sua, seppur complessa, visione generale.
In una tale concezione della scena la profondità spaziale del dramma si avverte solo grazie alla luce che il regista texano preferisce adoperare non per illuminare tutto lo spazio in cui si muovono gli attori ma per pennellare con maestria solo alcune parti di esso, distinguendo in modo netto il fondo dal primo piano, in modo tale che ciò che accade in secondo piano non influisca sulla percezione di ciò che sta avvenendo in primo piano.
Attraverso la luce, Wilson fa sì che gli attori si staglino con precisione nello spazio non illuminandone i corpi per intero, ma giocando ad illuminare in maniera zonale solo il viso o le parti del corpo che ritiene necessarie a costruire il senso di quella enorme tela quale appare lo spazio della sua scena.
Il controllo perfetto della scena passa anche attraverso la gestione del diverso grado di intensità luminosa prodotta dagli illuminatori che adopera così come attraverso le singole porzioni di luce sui corpi, sugli oggetti di scena e sull’illuminazione separata del fondale.
Quando il teatro non si limita a “raccontare” un testo, ma va oltre trasformando la messinscena da luogo del dramma a espressione di qualcosa che va al di là del dramma stesso, i confini tra i diversi linguaggi della scena sono inevitabilmente travalicati e rimessi in discussione: il risultato è una complessa quanto meravigliosa opera d’arte totale di cui il teatro di questo grande maestro è la più pura espressione.
Il teatro-immagine di Wilson, inoltre, è stato spesso accostato allo sperimentalismo italiano degli anni Settanta nel quale l’idea di un teatro che non consistesse nella semplice messinscena di un testo veniva del tutto soppiantata da quella di una sorta di scrittura scenica realizzata soprattutto per mezzo della luce e del colore luminoso. Nello scenario nostrano le fonti luminose utilizzate sono soprattutto luci di uso domestico o tubi al neon, oppure illuminatori poco professionali che però, nonostante tutti i limiti, hanno aperto un solco nella nostra storia teatrale: quello della realizzazione di un prodotto multimediale e tecnologicamente al passo con i tempi, frutto di un utilizzo dell’elettronica molto accurato ed innovativo. Avrò modo di approfondire nei miei prossimi articoli questo discorso.
ARTICOLO DI KATIA MANIELLO
L’ articolo è presente sul magazine online polytroponmagazine.com
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