Sul fatto che il teatro di Bob Wilson sia una forma di messinscena in cui l’illuminazione gioca un ruolo decisivo e che senza gli accorgimenti luministici il senso di una costruzione tanto meticolosa verrebbe meno avevo già accennato nel precedente articolo del 22 dicembre 2021 dedicato al grande regista americano.
Questa volta mi piacerebbe, invece, analizzare più da vicino il modo in cui Wilson adopera la luce attraverso uno sguardo ad alcune delle sue messinscene più famose. Mi riferisco alla Turandot la cui ultima messinscena risale al dicembre 2018 presso il Teatro Reale di Madrid dove, a mio parere, l’illuminazione realizzata è tra le più ricercate che si siano mai viste.
Turandot è un’opera in tre atti di Giacomo Puccini, ambientata nella Cina delle fiabe la cui trama ruota attorno agli enigmi che la principessa dal cuore di ghiaccio propone ai suoi contendenti, in un contesto di sfondo che, se accenna alle favole, non dimentica di rivelarsi, sulla scena di Wilson, nel suo algido rigore formale, fatto di luci che si accendono e spengono in maniera graduale, separando i protagonisti dallo sfondo. La luce vi svolge una funzione strutturante necessaria alla realizzazione del quadro scenico e al tempo stesso diviene un mezzo fondamentale per la costruzione dello spazio così come del tempo e del senso dell’opera.
Wilson mette in scena la celebre opera di Puccini ricoprendola di una nuova veste, in grado di esprimersi con un linguaggio nuovo: il linguaggio della luce.
Nella Turandot la luce di Wilson celebra la solennità di una messinscena in cui la performance del gesto fisico è più importante del racconto stesso, in cui la fisicità non può che essere esaltata da un’illuminazione che agisce per punti, che non illumina mai completamente e totalmente, ma che trasmette l’impressione di un quadro fatto di singoli dettagli, ciascuno esaltato nel modo particolare che gli è proprio.
In questa messinscena Wilson fa largo uso luci dai colori primari attraverso i quali connota i vari personaggi: bianco per i tre stranieri Timur, Calaf e Liù; blu per Ping, Pang, Pong; neri e grigi per le guardie e il popolo; il rosso per la principessa, colore che predominerà anche alla fine dell’opera quando Turandot rimane sola in scena e una sottile lama di luce bianca scende dall’alto e si staglia sullo sfondo nero.
Nel grande quadro creato da Wilson i personaggi sono statici e solenni, spesso disposti in modo simmetrico e volutamente gerarchico, con il popolo a far da sfondo, davanti le guardie con spaventose armature in stile orientale, i personaggi principali sempre in proscenio. Non c’è mai contatto di sguardi, ne contatto fisico tra gli attori, i cui sguardi sono fissi nel vuoto davanti a sé, la luce sulla scena e l’unico elemento emozionale, la cui espressività si concretizza attraverso i colori, i costumi vistosi e sontuosi, il trucco marcato dei volti.
La recitazione non è emotiva, per cui l’espressione dei sentimenti è affidata solo ad una mimica facciale molto particolare, accompagnata spesso da una gestualità molto marcata.
Attraverso la luce si compie anche il percorso del personaggio principale che diventa, col tempo, sempre più umano, materializzandosi e camminando con le sue gambe, dopo essere apparso su piattaforme e trampolini che disegnano opportunamente la complessa architettura del quadro scenico.
L’utilizzo del ciclorama invece accresce la complessità dello sfondo e permette a Wilson di cambiare opportunamente il colore e le geometrie di sfondo, che in alcune scene diventa protagonista al pari degli attori, come in quella in cui una lama di luce, disegnandosi sullo sfondo rosso acceso in modo graduale e coinvolgente, dall’alto sembra colpire la principessa Turandot.
In tutte le messinscene di Wilson vige la regola della recitazione antinaturalistica, fredda, in cui nemmeno gli innamorati si sfiorano mai ed in cui i personaggi sembrano di ghiaccio, privi di sentimenti.
Anche nella Traviata, andata in scena in molte repliche nel 2018, la scelta è quella di una recitazione dalla gestualità ieratica, distaccata ed algida persino nel momento della morte della protagonista Violetta.
In questa messinscena l’utilizzo di luci colorate è ridotto quasi al nulla, predomina, invece, per tutta l’opera, un’illuminazione dai toni freddi del bianco e dell’azzurro tanto nel fondale che sui costumi degli attori.
La luminosità delle scene più concitate è ridotta all’uso di una fonte di luce drammatica che isola solo il viso fino all’altezza del petto e che spesso si impone sulla luminosità generale, più tenue, che invece illumina il resto dei corpi.
Il Teatro Immagine di Wilson, antinaturalistico e legato alla luce, resta tale anche in una delle sue ultime messinscene in chiave moderna, The Jungle Book, andato in scena in Italia, quest’anno al Teatro della Pergola a Firenze, che ha riscosso un enorme successo nella riscrittura, come solo Wilson sa fare, di un’opera così conosciuta come il libro della jungla in chiave tanto pungente quanto moderna.
Le luci sono spesso degli enormi segui-persone che esaltano la giocosità dei personaggi animaleschi, mentre sullo sfondo campeggiano enormi silhouette di foglie e rami; l’uso dell’illuminazione è sempre studiatissimo anche se rispetto alle altre messinscene prevale il colore acceso dei costumi ed uno sfondo da jungla stilizzata, il tutto in un clima di musica rock e personaggi danzanti.
Robert Wilson è indubbiamente uno degli innovatori più originali della scena del XXI secolo, poiché ispirandosi all’arte minimale, alle suggestioni dell’arte orientale ed all’astrazione figurativa, ha messo in scena un uso della luce in chiave di ricerca, lontano ormai miglia e miglia dalla semplice pratica di illuminare il palco per far vedere gli attori.
ARTICOLO DI KATIA MANIELLO
L’ articolo è presente sul magazine online polytroponmagazine.com
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